La calzatura gioca un ruolo importante nella vita del Giappone. Non viene infatti considerata come un semplice accessorio quanto più uno strumento che segna il passaggio tra i diversi tipi di spazio. Prima di entrare in casa ci si toglie sempre le scarpe e si indossano delle ciabatte apposite, ma lo stesso avviene anche all’interno di alcuni ristoranti tipici, per accedere ai templi o in alcuni spazi pubblici come ad esempio nello spogliatoio della palestra. Un tempo quando i pavimenti delle case erano rigorosamente in tatami, togliere le scarpe era certo un obbligo ma ancora oggi lo si fa ugualmente per tradizione, voglia di libertà o un desiderio di godersi lo spazio pienamente. Togliere e mettere le scarpe è dunque un gesto molto consueto in Giappone e forse anche per questo viene data una grande importanza all’aspetto pratico privilegiando sempre delle calzature comode, preferibilmente senza lacci e facili da indossare.
Le scarpe tradizionali del Giappone sono chiamate geta e zori. Il termine geta deriva dalla combinazione dei caratteri ge=sotto e ta=povero, privo di valore, indicando un tipo di calzatura molto essenziale a metà strada tra gli zoccoli e le infradito. In sostanza una semplice suola in legno sollevata da due tasselli chiamati ha (denti) tenuta sul piede da una stringa. Queste tipo di scarpa viene indossata ancora oggi con un abbigliamento più informale, come ad esempio lo yukata, un tipo di kimono estivo in cotone ancora molto diffuso ed indossato durante i week-end o in occasione dei matsuri (feste popolari) che si tengono in tutto il Giappone soprattutto nei mesi di luglio ed agosto. I geta hanno comunemente una suola rialzata da terra di circa 4-5 cm ma si possono trovare anche in versione “scarpa da lavoro” come quelle usate dai maestri di sushi, con una suola a 17 cm adatta a proteggere il piede dal contatto con il pavimento.
Per un abbigliamento più formale come nel caso del kimono, si preferiscono invece gli zori il cui termine deriva dalla combinazione sempre di due caratteri zo=paglia e ri=suola. Quest’ultima può essere appunto di paglia di riso o altre fibre naturali, stoffa, legno laccato, pelle, gomma o altri materiali sintetici più adattati ai tempi moderni. In genere non si tratta di scarpe particolarmente comode sia per la loro rigidità, sia perché nel rispetto del canone estetico il tallone dovrebbe sporgere di circa 1/2 cm-1 cm ed il mellino fuoriuscire in un sottile segno di “civetteria”. Indossarle non facilita certo l’andatura e costringe ad un passo corto e lento che comunque bene si addice all’eleganza raffinata e al portamento del kimono.
Entrambe, geta e zori, vengono solitamente indossati con i caratteristici tabi, una sorta di calzino infradito il cui uso si estese in Giappone intorno al XV secolo utilizzato da tutte le classi sociali con colori distinti a seconda del rango. Alle persone comuni era consentito solo l’uso del colore blu indigo, alla classe dei samurai era permesso qualsiasi colore eccetto l’oro e il viola che poteva essere invece indossato solo dalle classi aristocratiche. I tabi sono generalmente in tessuto di cotone, leggermente alti in caviglia e con un’apertura sul tallone chiusa da appositi bottoncini per favorire la calzata. Oggi li troviamo sia nella loro forma tradizionale ma anche sotto forma di calzino vero e proprio, sempre infradito o addirittura con le cinque dita seguendo l’evoluzione degli stili e della moda.
Li ritroviamo anche sotto forma di scarpa da lavoro con una suola rinforzata in gomma; i cosidetti jika-tabi dove jika significa “a contatto con il terreno”. Si tratta di una calzatura certo ripresa dalla tradizione ma ideata intorno al 1918 da Shōjirō Ishibashi, fondatore della Bridgestone Corporation che tutti conosciamo come maggiore produttore mondiale di gomme da strada. Queste scarpe sono molto popolari ancora oggi e comunemente usate da carpentieri, manovali e giardinieri proprio perché consentono una buona presa sul terreno fondamentale per questa tipologia di lavori. Un personaggio eclettico il signor Ishibashi che ha dato il suo contributo anche all’Italia, sostenendo nel 1956 la realizzazione del padiglione dedicato al Giappone della Biennale di Venezia. I suoi jika-tabi hanno sicuramente segnato l’inizio di una nuova tendenza, rappresentando una fonte d’ispirazione per molti anche nel campo della moda e del design, allargando l’uso di questa calzatura al quotidiano.
Che si parli di scarpe o di calzini, tutto ruota comunque sempre attorno alla modelleria infradito, che qui in Giappone è certamente molto popolare anche perché collegata direttamente alla salute. Secondo la teoria shiatsu, l’uso delle infradito permetterebbe infatti la stimolazione del meridiano del fegato situato proprio tra alluce e illice, contrastando dunque l’infiammazione di quest’organo e delle strutture tendinee di tutto l’organismo con notevoli benefici anche alla circolazione sanguigna, vantaggi psicologici al cervello fino a favorire il giudizio e la concentrazione.
Prendendo spunto da questo binomio tradizione-benessere, è dunque aumentato negli ultimi anni anche lo spazio dedicato da molti marchi sportivi che hanno iniziato a proporre con enorme successo, una vasta gamma di calzature ispirate al concetto della scarpa “ninja” o con suole che ricordano i più tipici geta, tanto amate per lo sport e il tempo libero. Se venite in Giappone quest’estate non mancate di comprare una scarpa, un sandalo o almeno un calzino nella tipica versione infradito, da usare tutti i giorni per il vostro benessere o da regalare ad un amico in ricordo di un Giappone che guarda al futuro con un pizzico di tradizione e qualche novità sempre alla portata di tutti sperando possiate dire anche voi…we ♥ flip-flops !
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Molto interessane 🙂
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Anche a Venezia le scarpe sono fondamentali perché sennò soffri e le infradito sono vivamente sconsigliate! Il consumo dei cerotti piccoli in estate è esponenziale per questa città… ma naturalmente il Giappone è un’altra cosa. Articolo molto interessante!
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Hai ragione a Venezia la scarpa e’ fondamentale…mi chiedo proprio come facessero nel ‘400 a calzare le chopine ma forse non le usavano per camminare tra calli e campielli! Grazie a te e buon week end
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